ANDIAMO A QUEL PAESE

 ANDIAMO A QUEL PAESE

locandinaDA GIOVEDI’ 6 NOVEMBRE AL CINEMA ALFIERI

Valentino e Salvo, disoccupati in cerca di fortuna e raccomandazione, lasciano Palermo per il paese, dove Valentino è nato e ha piantato la donna dei suoi sogni. La situazione a Monteforte non è però promettente, la gente mormora tra piazza, chiesa, bar e barbiere. L’età matura dei paesani ispira Salvo che risolve di (soprav)vivere con la pensione della suocera e di ogni zio e zia provvisto di ‘utile’. Accolti e costretti a un regime alimentare severo, che li conservi in salute e in vita, i ‘pensionanti’ delegano vita e ritiro pensione a Salvo e Valentino, che comprano la prima auto nuova e provano a godersi il quotidiano. Ma uno dopo l’altro gli ospiti senili trapasseranno, gettando Salvo nella più completa disperazione. Irriducibile e ostinato, convince Valentino a sposare la zia Lucia per garantirsi con la sua pensione il futuro. Niente tuttavia andrà secondo i suoi piani. Perché la vita è sempre in agguato.
Ci risiamo, Andiamo a quel paese, commedia assolatissima della coppia Ficarra e Picone, è ancora una volta incentrata sulla parola e senza nessun interesse rispetto alla visione. Ma se il loro quarto film produrrebbe il medesimo risultato recitato in radio, se non altro questa volta prova a dialogare con la situazione archetipica e sociale in cui Andiamo a quel paese è calato. La commedia gioca allora la carta della denuncia del malcostume politico e culturale italiano, in cui i figli faticano a diventare protagonisti del loro tempo e gli adulti ‘delegano’. I grandi sono madri, nonne e nonni, zie e zii in piena crisi di identità, al punto da svendere i sentimenti e venderli al migliore offerente, pensione compresa.
Tra populismo e corruzione, a mancare secondo Salvo Ficarra e Valentino Picone sono i principi morali, la volontà e il pudore. In assenza di regole e leggi si scialacquano le sostanze e si insidiano le zie. Ma davvero l’unico patrimonio culturale trasmettibile alle generazioni future sono le pensioni? Evidentemente no e il film prova ad assegnare a ogni cosa il giusto peso, una forza spirituale e un’onda che ‘bagna’ anche la Chiesa e il desiderio di amore dei suoi ministri. L’epopea sgangherata del duo scioperato, alle prese col ‘debito pubblico’ accumulato dai padri, coi genitori detentori di ‘ricchezza’ mobiliare o immobiliare e coi trasferimenti intra-familiari, per la prima volta non sembra derivare da operazioni comiche radicate nei tempi e nei ritmi degli sketch televisivi ma provenire da una poetica cinematografica e da precisi filoni della commedia all’italiana.
L’attualizzazione socio-antropologica del soggetto si appoggia finalmente su un testo scritto per l’occasione e uno sviluppo narrativo più volte affrancato dalla vis comica dei protagonisti. L’addizione di battute comiche lascia il posto all’evoluzione del soggetto, che mormora un mormorio anti-istituzionale (e confessionale) nemmeno troppo sottotraccia. Sotto il cielo, come dice il giovane prete venuto dal Trentino a miracol mostrare, forse si agita qualcosa di nuovo, una risata sovvertitrice. I problemi sorgono al solito sulla messa in scena, un nulla visivo che non valorizza l’idea di partenza.
Troppo occupati a favorire la mimesi e la comprensione spettatoriale, Ficarra e Picone non riescono ancora a ragionare in termini cinematografici. Per gli attori siciliani nati stanchi il cinema sembra uno dei tanti luoghi sui quali spalmare la loro identità multimediale piuttosto che il coronamento di una carriera. Iperdinamico l’uno e mite l’altro, Ficarra e Picone insistono a darsi alla macchina da presa senza preoccuparsi troppo della specificità del mezzo. A loro favore rema comunque una generosità attoriale che invalida in più di un’occasione il grado zero della regia, accomodata sulla voce over e su quella inside di Nino Frassica. Voci che raccordano la storia e la conducono verso un finale nero. Un epilogo amaro che reclama ‘implorando’ l’urgenza di un ricambio generazionale delle classi dirigenti.

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