Foibe, la deportazione silenziosa: testimonianze dell’esodo giuliano-dalmata

 Foibe, la deportazione silenziosa: testimonianze dell’esodo giuliano-dalmata

“Come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà”. Così cantava Sergio Endrigo, polese di nascita, nel brano intitolato “1947” in cui riassumeva, in versi, l’amore per la propria terra, mista a nostalgia e dolore provocati dallo sradicamento dovuto all’esodo.

Il 10 febbraio si celebra, infatti, «Il Giorno del Ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale.  Conseguentemente all’istituzione di tale giornata si è registrata un’esplosione di interesse nei confronti dell’esodo a cui si è unita la voce di quanti, ancora in vita, hanno fiato per testimoniare gli orrori di una tragedia consumata sulla propria pelle.

Scegliere di partire era l’unica via possibile ed includeva la paura di una comunità che, di fronte alla prospettiva del nazionalcomunismo jugoslavo, preferiva pagare volontariamente il prezzo dell’esilio.

Gino, esule da Fiume, sebbene abbia 84 anni e vive a Palermo, ha ancora vivido il ricordo della partenza. «Avevamo venduto delle cose di valore alla gente che rimaneva a Fiume – dice, con voce tremula – e poi, una mattina, preparammo le valigie e uscimmo di casa percorrendo Via Mameli, che portava al corso principale. Io e mia sorella trascinavamo sul lastricato una scatola di cartone legata con lo spago con dentro i nostri pochi effetti personali. Ridevamo, eravamo troppo piccoli per capire cosa stava accadendo. I miei genitori, invece, piangevano. Arrivati alla stazione salimmo sul primo convoglio misto, cioè che trasportava merci e passeggeri, diretto a Trieste, senza biglietto e quindi rischiando… ».

Giunti in Italia, il Silos di Trieste rappresentava il primo approdo per gli esuli che, successivamente si dispersero su tutto il territorio nazionale a macchia di leopardo, trovando forme d’accoglienza temporanea all’interno dei circa 109 Centri di raccolta profughi (CPR). La Sicilia, per volontà del Governo di Roma e su disposizioni della Prefettura di Palermo, accolse gli esuli nei CPR di Termini Imerese, Catania e Siracusa dove, ad Ortigia, funzionava un servizio ospedaliero in favore dei profughi provenienti non solo dal confine orientale ma anche dalle ex colonie africane e dalla Grecia.

L’organizzazione dei CPR siciliani non differiva da quelli dislocati nel resto d’Italia: si riutilizzavano strutture preesistenti aventi ambienti ampi, tali da poterne ricavare piccole stanze da destinare ai diversi nuclei familiari.

La presenza dei profughi giuliani all’interno del  tessuto sociale italiano post-bellico rappresentò una sfida di solidarietà, che non sempre ebbe esito positivo, implicando anche il confronto con una realtà fino ad allora minimizzata. Ciò che pochi anni prima era accaduto al confine orientale e che continuava ad accadere ai giuliano-dalmati era una realtà sconosciuta e che, inaspettatamente, si imponeva con prepotenza. Relegare la loro storia a memoria locale era servito a ben poco.

È stato grazie all’impegno dell’associazionismo degli esuli, congiuntamente al mutamento del clima politico internazionale, a condurre alla promulgazione di leggi e provvedimenti legislativi a sostegno delle attività culturali relative al mondo giuliano-dalmata e che, di fatto, si sono tradotti nella legge n. 92 del 2004 nota, appunto, come «Il Giorno del Ricordo».

Ed è opportuno ricordare come, nonostante la carente documentazione e a dispetto di altre località italiane che ospitarono un gran numero di profughi, anche la Sicilia fu terra d’accoglienza: quando, alla fine del secondo conflitto mondiale, si ebbe la necessità di accogliere sia i profughi provenienti dalle diverse zone di guerra che gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia la Sicilia non si esentò.

L’ex caserma militare “Giuseppe La Masa” divenne il CPR di Termini Imerese – oggetto di una minuziosa ed appassionata ricerca condotta dallo storico Fabio Lo Bono – ed ospitò circa 2mila esuli di cui 520 provenienti dalla frontiera orientale.  Il CPR di Catania, secondo testimonianze attendibili di esuli che hanno vissuto lì, era ubicato in zona Cibali e si trattava, anche in questo caso, di un’ex caserma. In entrambi i casi i servizi igienici e le aree “ricreative” erano in comune.

L’inserimento dei profughi all’interno del tessuto sociale siciliano fu caratterizzato da un’iniziale diffidenza mista a sospetto, considerando che all’epoca era molto diffuso il pregiudizio che attribuiva ai profughi l’epiteto di fascisti. Tuttavia, quell’iniziale sospetto lasciò spazio ad atti di accoglienza e solidarietà. Un esempio di ottimo inserimento sociale è da considerare quello del fiumano Arturo De Maineri. Dal 1943 al 1945 fu segretario del Partito Fascista Repubblicano a Fiume insieme al podestà Gino Sirola, ricoprendo le due più alte cariche in mano agli italiani durante l’occupazione nazista della città. Riuscì a fuggire durante l’occupazione jugoslava della città e si rifugiò prima a Crespano del Grappa e poi a Venezia. Tempo dopo, in virtù dell’esperienza compiuta alla Direzione della raffineria ROMSA a Fiume, venne assunto dalla RASIOM, raffineria di petrolio costruita ad Augusta, da Angelo Moratti.

Creare un ponte tangibile e reale tra gli eventi accaduti e la loro risonanza sulle vite dei singoli permette di non rimanere indifferenti, invitando all’ascolto e fungendo da deterrente al reiterarsi di tragedie in cui il confine tra esuli e persecutori è molto labile.

di Federica Concetta Vecchio

Federica Vecchio è catanese, di Calatabiano, e ha studiato Scienze della storia e del documento.

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